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Mia madre è un fiume- a cura del dott. Cristian Prosperini

Testo tratto dall’intervento nel convegno “La voce dei giovani XVI”


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La lettura di questo primo romanzo di Donatella Di Pietrantonio ci consente di entrare ancora una volta nelle diverse sfumature che caratterizzano il rapporto tra una figlia e sua madre.

Una questione centrale che caratterizza questo particolare rapporto è ciò che questa figlia sente di aver ricevuto da sua madre o in modo più preciso il sentire di non aver ricevuto a sufficienza da sua madre. In questa prospettiva un tema estremamente rilevante è quello dell’ereditare, ma non solo nella logica dell'ereditarietà, legata alla possibilità di patire della stessa degenerazione cognitiva della madre, ma più intimamente un trovarsi ad avere a che fare con uno specchio, rappresentato dalla madre, attraverso il quale scorgere di aver avuto da lei più di quanto avrebbe sperato e di aver ricevuto meno di quanto avrebbe voluto.

Il timore di un destino femminile comune è ciò che attanaglia la protagonista. Con le sue parole: “Ho paura di lei. D’incontrarla nello specchio stregato. Che mi tiri dentro con le mani adunche. Mi abbracci forte forte come non ha fatto mai. Dietro le sue spalle intravedo la nonna, la bisnonna, vecchie dementi. Mi chiamano con voci di sirene agghiaccianti”.  

Rispetto a queste inquietudini è presente una forte sensazione di colpevolezza, un timore radicato di poter essere la causa di quella malattia che la spinge a ricercare rassicurazioni ragionevolmente superflue. Una colpa legata fortemente al senso di disperazione che sorge in lei davanti alla caduta rovinosa di quel punto di riferimento che la madre rappresentava. È proprio questo affetto angoscioso che la spinge a preferire un supporsi responsabile, piuttosto che fare conti con l’imprevedibilità e l’insensatezza di ciò che può accadere.

Il rapporto tra questa figlia e sua madre si snoda in un’evoluzione logica che parte da un profondo desiderio di contatto per tramutarsi in rifiuto di questo stesso contatto, giungendo ad essere percepito come una vera e propria paura di tale possibilità. In questa variazione però si coglie come ogni qualvolta c’è desiderio di contatto c’è rifiuto e ogni qualvolta c’è un sentire di volerne star lontana arde il grande desiderio di un’intimità con sua madre. Questa oscillazione la si coglie nel racconto delle esperienze quotidiane ed in particolare nei momenti in cui, fin da ragazzina, pur di entrare in contrasto con ciò che sua madre le chiedeva di fare, finiva per farsi carico di compiti ben più gravosi e nel portare a casa una serie di ragazzi con l’intento di dimostrare e dimostrarsi di essere meritevole dell’amore che sentiva di non aver avuto a sufficienza.

Tutto il testo si articola come un racconto affabulato, che la figlia fa della vita di sua madre a sua madre stessa nel tentativo di contrastare la sua degenerazione cognitiva. È un racconto edulcorato con l’intenzione di non ferire con vecchi ricordi, ma è, come si può cogliere facilmente, una terapia per entrambe. E lo si vede negli inciampi del suo racconto, nel suo finire per parlar di sé scusandosi.  Sono proprio questi momenti quelli in cui si rivela la necessità di questa figlia di trovare un modo per emergere dalla vita della madre, di emanciparsene.

Sono preziosi i passaggi in cui questa figlia ci racconta la sua angoscia infantile di morire che si realizza come un appello di presenza alla madre. Un appello che non viene raccolto quanto piuttosto lasciato cadere. Ed in questo non trovare spazio emerge la questione che attanaglia questa figlia, ovvero l’interrogativo inconsciamente rivolto alla madre “puoi perdermi?”

Nel confronto con la madre questa figlia si trova ad essere divisa da due tendenze opposte. Da una parte una spinta alla differenziazione che la fa precipitare nella colpa, come nel momento in cui, in un passaggio nel testo, afferma di essere stata “colpevole di felicità” essendosi sottratta in alcuni momenti dallo stile di vita sacrificale della madre; dall’altra una tendenza ad omologarsi che però la fa sprofondare nell’angoscia. Ancora una volta con le sue parole: “Sono stanca di lei. Di portarne segni della vita. Non mi sono liberata. Lascio che mi occupi, ancora. Che m’infesti. Reagisco e perdo tempo. Continuo a girare in tondo senza trovare la via d'uscita dalla sua orbita verso altri mondi. Vado invecchiando, in questa immaturità.

C’è però un momento di svolta fondamentale nelle fasi conclusive di questo romanzo che vale la pena sottolineare, un momento in cui si realizza una variazione della posizione soggettiva di questa figlia nei confronti di sua madre. È il momento in cui arriva a riconoscere a sé stessa di aver utilizzato il rapporto con sua madre come un alibi per giustificare il suo “volo zoppo”. Ed è questa prospettiva che realizza la possibilità di un’emancipazione dal rapporto sofferente avuto con la madre.

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