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ADOLESCENTI CHE UCCIDONO - A cura della dott.ssa Nicoletta Romanelli

Psicologa - Criminologa – Psicodiagnosta – Esperta in Scienze dell'Educazione e Formazione – Docente IRC


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L'adolescenza si configura come un momento nella vita dell'individuo particolarmente turbolento e pervaso da profonde trasformazioni fisiche e psicologiche.

Al pari di una nave senza nocchiere l'adolescente si trova ad affrontare tumultuose tempeste interiori, burrasche emotive intrapsichiche, uragani emozionali nelle relazioni tra pari con gli adulti. Avviene una frattura con il Sé bambino e l'adolescente, particolare attore sociale, si avvia ad una costruzione di senso e individualità improntata sulla “mediazione” tra istanze e pressioni differenti, tra slanci di natura biologica che impattano sul corpo e sulla mente ed influenze esterne, che giocano un ruolo importante in questo processo, poiché, appunto, in fieri e non ancora compiuto.

Impegnato nel difficile compito evolutivo di approdare ad una identità adulta, l’adolescente è costretto fisiologicamente a fronteggiare innumerevoli battaglie quotidiane, talora sguarnito di strumenti intellettivi ed emotivi adeguati e, magari, senza il giusto supporto di figure significative di riferimento, in grado di offrire quell’aiuto necessario a destreggiarsi nei meandri della vita, in fase di introiezione di un sistema valoriale. Dal momento che l'identità dell'adolescente è un work in progress è di per sé parziale e provvisoria, mancante di una progettualità e di una solidità che ne imprima i caratteri essenziali.

Ciò che rende “umano” l'essere umano sono i sentimenti e le relazioni che soltanto attraverso la sensibilità possono dipanarsi e crescere.

Eppure la cronaca nera consegna un quadro sempre più nero di crimini e vicende drammatiche, che vedono come protagonisti giovani che uccidono. Giovani anaffettivi e alessitimici che agiscono di impulso e sottovalutano le conseguenze delle azioni poste in essere. Anche quando queste hanno esiti nefasti.

Giovani che stuprano in branco coetanee e si vantano sui social, ragazze che partoriscono e uccidono i propri figli seppellendoli in giardino, figli che accoltellano i compagni per futili motivi o addirittura arrivano a massacrare le loro famiglie, …

Spaventa la normalizzazione di tali episodi.

La cronaca è letteralmente invasa da notizie shock di questa portata. Continuamente si parla di bullismo (o è più appropriato parlare di vera e propria delinquenza giovanile?), di femminicidi posti in essere anche da giovanissimi, di assalti ad adulti che hanno avuto la “colpa” di rimproverare atti vandalici, violenze sempre più “creative” nel loro palesarsi. Ma quanto, effettivamente, il parlare di certi temi rischia di sfociare nell'infodemia? Quanto l'eccessiva esposizione a tali informazioni rischia di produrre un “circo mediatico” tale da ingenerare un'anestesia affettiva in chi ascolta ed un desiderio di emulazione del reo per “essere socialmente riconosciuti”?

L'adolescente ha bisogno di un rispecchiamento, necessita di essere riconosciuto per sentirsi restituire il senso di Sè, necessita di un'attestazione della sua stessa esistenza. Il punto focale sul quale riflettere è costituito da una “fragilità narcisista” che non è struttura ma nebulosa sofferente, per citare le parole di Pietropolli Charmet, di per sé evanescente e vacua, che sfugge ed evapora invece di solidificarsi. L'adolescente vive di sguardi, di corpo, fatica a simbolizzare e la parola è simbolo. L'adolescente veicola angosce ed emozioni attraverso camouflage corporei, tagli, esplosioni emotive talvolta devastanti.

Molti segnali di rischio devianza affondano le radici in altre fasi di vita, magari già nell'infanzia, noti come scostamenti marginali rispetto alle regole o l'uso di un linguaggio verbale fortemente aggressivo. È compito dell'adulto cogliere certi segnali, stigmatizzandoli e non, come sempre più spesso accade, facendo finta di niente. In questo modo il messaggio che si trasmette è quello di accettare la condotta trasgressiva.

Uno dei principali e più gravi fattori di rischio è proprio il negazionismo ed il giustificazionismo di molti genitori che, nel disperato e ottuso tentativo di “proteggere” i propri figli (o più spesso se stessi dal fallimento educativo) altro non fa che alimentarne l'ipertrofia egoica. Anche dinanzi ad atti criminosi terribili ci sono genitori che sfacciatamente persistono nel voler giustificare i propri figli. Figli che hanno fondato la loro identità “sull’accumulo” , identità olografiche ed evanescenti, dove la relazione è stata barattata con oggetti e concessioni varie.


Eppure lo strumento principe della relazione, dell'umano, è la parola. Attraverso la parola si crea il dialogo, la conoscenza di sé e dell'altro e si intesse la relazione. Attraverso la parola si può dare forma ai propri pensieri e più parole conosciamo più il pensiero è profondo e nutriente. Più il pensiero diventa complesso più è possibile apprezzarne la bellezza.


Imparando a distinguere ciò che è bene e ciò che è male.

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