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Le parole servono. Verità

Aggiornamento: 10 ott 2022

A cura di: Dott.ssa Lucia Colalancia

“Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi”.

Massimo Gramellini



Vito Mancuso, teologo laico e filosofo, in La mente innamorata (2022, Garzanti) afferma che il valore di un essere umano dipende anzitutto dalle domande che è in grado di avvertire e poi di porre a se stesso (p.13). Domande che mettono in moto la mente nella ricerca continua di risposte, domande che la inquietano e, a volte, la paralizzano o la rendono straordinariamente viva, pervasa da quell’innamoramento, che Mancuso attribuisce all’esperienza straordinaria della mente che si domanda, di accedere cioè all’energia del desiderio. Desiderio che si nutre della mancanza e anima la ricerca di sapere del mondo, dell’altro, di noi stessi. Sapere di sé.


A pag. 31 Mancuso scrive:

Ma da cosa dipende ciò che concretamente siamo? Dall’oggetto che guida l’appetito-desiderio. Tanto è forte l’impronta che esso imprime su di noi, che noi diventiamo il nostro desiderio. A seconda della sua natura esso ci forma o ci deforma. E se contiene più bellezza e più verità, ci trasforma in meglio, ci riforma, e noi diventiamo migliori”.

Se il desiderio contiene bellezza e verità… noi diventiamo migliori. Da queste importanti riflessioni di Vito Mancuso in questo interessante saggio che vi invito a leggere, ci addentriamo nelle riflessioni sulla parola verità, con le sue molteplici sfaccettature e radici etimologiche (vedi Etimologica-mente della Dott.ssa Raffella D’Eramo). Da ciò in cui credo e spero (la verità per me e in assoluto) allo svelamento di una conoscenza, di un fatto realmente accaduto; da un fatto reale ad una affermazione o conoscenza ideale di “ciò che vero”; da ciò che è dimostrabile a ciò che soggettivamente si concepisce, la parola verità ci mostra la sua poliedricità e ci pone di fronte a domande esistenziali profonde, rintracciabili nell’evoluzione del pensiero filosofico dell’essere umano, nella letteratura e nelle religioni. Cosa si intende per verità? In che modo interroga la nostra soggettività?

In qualunque direzione di questa poliedricità la mia riflessione procedesse, certamente non sarebbe esaustiva, né esplicativa di cosa si intenda per “verità”. Ne mancherebbe sempre una parte. Ed è su questa mancanza che mi vorrei soffermare, soprattutto quando ha a che fare con la soggettività. Quando, legata a stretto mandato con la parola, ci dice qualcosa di noi, spesso celata dietro sogni da interpretare, sintomi fastidiosi che ci rendono dolosamente impotenti o lapsus e dimenticanze quasi imbarazzanti, che sfuggono a quel “padrone di casa” che, di fatto, crede illusoriamente di conoscere tutta la verità. Ma proprio tutta! Tra ciò che crediamo di essere e ciò che veramente siamo, tra ciò che vorremmo fosse vero e la realtà, si gioca la partita più importante della nostra vita: dare senso alla nostra esistenza.


In fondo in questa parte che manca vi è la possibilità di crescere, di evolversi, di approfondire, di trasformare la consapevolezza di ciò che è vero per noi: è proprio da questa mancanza di sapere che si attiva la ricerca, il desiderio di sapere di sé, e si accende la mente innamorata.


Secondo Bion la verità è il motore di ogni sano sviluppo mentale, è cibo per la mente: “un sano sviluppo mentale sembra dipendere dalla verità come l’organismo vivente dipende dal cibo, se la verità manca, la personalità si deteriora” (Bion, 1965, Trasformazioni: il passaggio dall’apprendimento alla crescita, Armando Editore- 2001). L’essere umano tende alla ricerca della verità, è costantemente portato a dare senso a ciò che lo circonda e a ciò che lo costituisce, a ciò che percepisce e sente nel corpo e nella mente, fin dall’infanzia e per tutta la vita. In particolare, è spinto a cercare la propria verità soggettiva. Ma, nello stesso tempo, questa verità che ci si svela, può inquietare e spaventare, tormentare e angosciare, al punto che tendiamo ad allontanarcene, a fuggirla, per non soffrire. A volte tale paura diviene fuga dalla verità che ci concerne, negazione, rifiuto, fino alle forme più estreme in cui la verità viene artefatta nell’illusione di non soffrirla. Nella stanza della psicoterapia, e ancor più della psicoanalisi, questa ambivalenza muove le fila di storie tormentate, narrate e ri-narrate, affinché quella verità che concerne nell’intimo sia sempre più autentica, liberata da fantasmi e da maschere che celano o oscurano esistenze. In un tempo soggettivo e in uno spazio relazionale (intrapsichico e interpsichico), nella stanza della psicoterapia la verità prende forma, si trasforma, si plasma ossia diviene verità. Più ci avviciniamo alla verità che ci concerne, più prendiamo contatto con il nostro desiderio inconscio, più ci sentiamo liberi di essere, ci sentiamo più autentici. Più ci allontaniamo dalla verità che ci concerne più il senso di realtà viene meno, la personalità si deteriora, ci dice Bion (op. cit.)


E se il contrario della verità è la falsità, se ciò che è vero si contrappone a ciò che è falso, il viaggio della pensabilità si conduce al modo in cui la parola “verità” ci interroga nel profondo della nostra soggettività: se ci sentiamo “veri” o meno, autentici o illusoriamente falsi, se e come questa dialettica ci ha permesso di adattarci ad una realtà che non fa sconti e che ci mette duramente alla prova. Il prezzo dell’adattamento al mondo, all’altro, alla cultura di appartenenza, spesso ha a che fare con quel sentimento di sentirsi o meno “vivi”, come ci ricorda Gramellini, perché la verità e la vita si intrecciano e si fondono e fanno di noi ciò che realmente siamo.

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Psicoeducazione: Educare alla verità


Prima di tutto non mentire a te stesso. L'uomo che mente a se stesso e crede alle sue stesse bugie arriva al punto di non essere in grado di distinguere la verità dentro di lui e, così, perde tutto il rispetto per se stesso e per gli altri. E non avendo rispetto cessa di amare. Fyodor Dostoyevsky


Che cosa significa educare alla verità? Affinché una relazione possa dirsi “educativa” non può prescindere dal concetto di verità e dai valori che sottende “l’esserci relazionale”. Con le sue molteplici sfaccettature e radici etimologiche, parlare di educare alla verità implica necessariamente contemplare quella poliedricità che essa sottende. Sia se consideriamo l’educare i piccoli alla sincerità, al non dire le “bugie”, che l’educare all’incontro con se stessi e con la propria verità soggettiva, la questione “verità” ci interroga, noi adulti, nel profondo e ci richiama all’inevitabilità del fare i conti con noi stessi. Come si può educare alla verità se non la si vive nella propria vita? Come si può dire ad un bambino che le bugie non si dicono ed hanno le gambe corte, se non siamo disposti a comprendere cosa questo significhi per noi adulti?


In fondo tutti, fin da piccoli, abbiamo capito che non sempre puoi dire ciò che pensi veramente, né fare ciò che vorresti veramente. Immersi fin dalla nascita in un contesto familiare, culturale, ecologico, l’essere umano sperimenta l’attrito dell’impatto dell’altro su di sé e ne viene plasmato, a volte a tal punto da non ritrovarsi, non riconoscendo più il sé autentico (Winnicot definiva tale condizione con il termine Falso Sé).


Il contrasto tra ciò che è culturalmente accettabile nel dire e nel fare e ciò che si vorrebbe dire e fare, fin da piccoli interroga i bambini, a volte anche disorientandoli di fronte alle incoerenze degli adulti che dicono di dire la verità, ma poi chiedono che i bambini capiscano quando è possibile dirla! Ricordo, anni fa, un bambino con la su mamma in un ascensore. Lui mi guardava dal basso della sua piccola altezza e mi scrutava, probabilmente incuriosito dalla mia persona. Ad un certo punto nel silenzio esordì: “Lo sai che hai i peli nel naso?”. La madre, immediatamente, colta da un moto di vergogna, sussultò: “Ma che dici!!! Non si dice così, mi scusi signora…”. Il bambino protestò, piagnucolando, che era vero! A quel ribattere, lo sguardo duro della madre lo gelò, la mano della madre lo strattonò. Abbassò lo sguardo mortificato. Ricordo che scoppiai in una fragorosa risata, dopo qualche secondo di sbigottimento… “E sì, hai ragione. Ho i peli nel naso. Anche tu li hai, li ha pure la tua mamma ed hanno una bella funzione, ci proteggono dalla polvere e dai batteri. Ma che vista laser hai!!” Gli accarezzai i capelli, sorridendo al luccichio dei suoi occhi rivitalizzati dalle mie parole, e uscimmo dall’ascensore. Quella affermazione così sincera, come solo i bambini sanno fare, non l’ho mai dimenticata. E non nego che ogni tanto, ripensandoci, mi viene ancora da sorridere…


La vita, con le sue molteplici sfaccettature, ci plasma e richiede un continuo adattamento. E spesso con un prezzo da pagare. I sintomi ad esempio raccontano proprio la fatica di questa dialettica, il prezzo da pagare per cercare un adattamento possibile alla realtà in cui viviamo. È lo scontro tra i titani della nostra psiche, come ci ha insegnato Freud, tra il principio del piacere e il principio di realtà, il cui campo di battaglia spesso è un corpo che risuona carico di ambivalenze e tormenti, angosce e impossibilità. È il disagio della civiltà (in Freud Opere, vol. 10, pag. 555, ediz. Boringhieri 1978).


Se esiste un disagio inevitabile nell’incontro tra l’individuo e la società in cui vive, tra ciò che si è e ciò che l’altro ti chiede di essere, educare alla verità implica necessariamente vivere una relazione in cui la “verità” è un valore e un obiettivo nello stesso tempo, un elemento fondante e, contemporaneamente, in divenire.

Come? Vivendo relazioni autentiche, con se stessi, con gli altri e, soprattutto con i bambini. Certo il bambino non sempre distingue tra realtà e immaginazione e, nel mondo dell’immaginazione si sa, la verità può essere artefatta, fantasticata, modificata. Aiutare i bambini ad entrare nella realtà del mondo che li circonda con gradualità, rispettandone immaginazione e fantasia, richiede educare al sé, ossia aiutando i bambini a sviluppare, nel tempo della crescita, consapevolezza di sé, del proprio mondo interno e delle emozioni che sperimentano. Richiede che ci siano adulti capaci di garantire ascolto, presenza affettiva, libertà e guida, affinché i bambini possano crescere psicologicamente e diventare sempre più autentici.


In tal senso, nel fare pensato con i figli potreste vedere un bel film del 2019: “Mio fratello rincorre i dinosauri”, dal romanzo omonimo di Giacomo Mazzariol, regia di Stefano Cipani. Un film per tutta la famiglia che affronta temi importantissimi per lo sviluppo della pensabilità, dalla diversità all’accoglienza e al rifiuto, dalle relazioni familiari a quelle amicali e amorose, e di come, trasversalmente, essi siano attraversati dal valore della verità come fondamento della crescita psicologica e di relazioni veramente autentiche ed educative. Jack è terzogenito di una famiglia attenta ai bisogni dei figli e democratica, dove il pensiero di tutti è ascoltato e ha valore. L’arrivo di un fratellino rende Jack veramente felice: potranno giocare insieme, condividere momenti indimenticabili e, soprattutto, contrastare le sorelle più grandi che dominano la scena familiare! Ma Gio è un bambino speciale: ha il potere di “dare vita alle cose”, di animarle.


Affetto da sindrome di Down, Gio viene presentato dai genitori come un bambino speciale, unico e con bisogni di crescita specifici, quasi un supereroe agli occhi di Jack. Ben presto però, Jack dovrà misurarsi con le difficoltà del fratello, a volte imbarazzante con le sue particolarità, soprattutto quando, da adolescente, inizia a percepirlo come “scomodo”, quando è con i suoi amici e con Arianna, di cui si è innamorato. La realtà di una famiglia unita, ma con bisogni speciali, manda in crisi Jack che inizia a prendere le distanze, a negare l’esistenza del fratello, fino al punto che la situazione gli sfugge di mano. Dare voce alla sua verità interiore e tormentata, porterà Jack e tutta la sua famiglia a fare i conti con il dolore che inevitabilmente ne deriva, con la sofferenza di una realtà che sembra così insostenibile… Ma unica possibilità per crescere psicologicamente e vivere relazioni affettive più autentiche.




Verità - A cura della Dott.Raffaella D'Eramo


“Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”, G. Orwell, La fattoria degli animali.


Tutte le volte che mi imbatto nella parola verità mi torna alla mente la domanda che Pilato, prefetto della Giudea, rivolse a Gesù: quid est veritas? (che cos’è la verità?). Pilato non aspetta la risposta di Gesù, se ne va. Per Pilato, come per tutti i Romani, la veritas è ciò che corrisponde esattamente a una determinata realtà, le cose come sono senza alcuna alterazione. Veritas deriva dal latino verus che ha origine nell’area balcanica e slava; da una radice var- che nello zendo ha valore di “credere” simile al germanico vahl “scegliere”e che potrebbe avere un legame con il sanscrito varâm, vrnômi “scelgo-voglio”.


La stessa radice appare anche nell’antico slavo véra, nel russo viera e boemo vira con valore di “fede, vera” l’anello nuziale, arrivato con questo significato fino a noi. In latino, dunque, la verità è ciò in cui ho fede, la verità di fatto, questo potrebbe spiegare il disinteresse di Pilato alla risposta di Gesù, qualunque cosa avesse detto non sarebbe stata per Pilato la verità e ancor più, il prefetto non avrebbe capito che la Verità era proprio Gesù (“Io sono la Via, la Verità e la Vita” Gv 14, 1-12) e che la Verità ci avrebbe reso liberi (“conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi” Gv 8,32). Diverso è il concetto di verità per i Greci: il termine alétheia (αλήθεια) “verità” è composto da alfa privativo (α-) e il verbo lanthano (λανθάνω) “nascondo, copro” (da cui Lete il fiume dell’oblio). L’aletheia è “ciò che non è nascosto”, e la si raggiunge attraverso una ricerca che implica l’uso della ragione, una indagine che ci conduce fino allo svelamento di ciò che era nascosto e ora è manifesto. La verità è dunque senza veli, è nuda! E noi siamo pronti a guardare la verità, una volta trovata, per quello che è?


Un’antica leggenda racconta dell’incontro tra la Verità e la Menzogna. Le due si incontrarono in prossimità di un pozzo e cominciarono a conversare, dopo che la Verità ebbe superato un’iniziale diffidenza. La Menzogna propose di fare un bagno nel pozzo e la Verità accettò. Dopo essersi spogliate entrarono nel pozzo e nuotarono; qualche tempo dopo, la Menzogna uscì dall’acqua e se ne andò portando con sé i vestiti della Verità. La Verità, scoperto l’inganno, cominciò a vagare in cerca della Menzogna per riprendersi i suoi vestiti, ma difronte al disprezzo manifestato dagli uomini nel vederla nuda, tornò nel pozzo per nascondersi. La Verità, la nuda Verità può diventare scomoda, essere indiscreta, causare dolore, ma è davvero lei a far soffrire o è l’incapacità di accettare l’esistenza di qualcosa che non siamo pronti ad accettare, mentre sembra più facile sostenere lo sguardo difronte alla Menzogna che veste abiti non suoi?

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