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Le parole servono: CRISI - a cura della dott.ssa Lucia Colalancia


“La creatività nasce dall’agonia come il giorno

nasce dalla notte oscura. È nelle crisi che sorge l’inventiva,

le scoperte e le grandi strategie”

Albert Einstein




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Certamente la parola “scelta” è intrinsecamente legata alla parola “crisi”, a quello sbarramento e a quel discrimine che ci si parano dinanzi nei momenti difficili della nostra vita. Ogni volta che la vita stessa ci pone sfide, ci mette dinanzi i nostri limiti, ci chiede un cambiamento. Penso alla “crisi adolescenziale”, straordinaria metamorfosi che richiede il bozzolo e nello stesso tempo apertura al nuovo che avanza, alle crisi relazionali, alle crisi politiche, economiche e mondiali di cui ogni giorno sentiamo parlare in accadimenti tragici dove di questa crisi vediamo solo un drammatico fallimento! Perché se per Einstein la crisi è la più grande benedizione per le persone e per le nazioni perché la crisi porta progressi, allora qualcosa non torna, qualcosa sfugge e ci richiama, nella pensabilità, ad attraversare questa meravigliosa parola e a “farcene qualcosa”.


Einstein scriveva queste riflessioni negli anni’30 quando nel mondo imperversava una importante crisi economica che avrebbe condotto ai drammatici eventi della Seconda Guerra Mondiale, a pochi anni dalla Prima, in una difficile ricostruzione attraversata da epidemie e povertà. Quando l’antisemitismo dilagava, in un fermento totalitaristico che poco aveva a che fare con la possibilità di scegliere. Eppure Einstein ci offre una riflessione, attualissima in una contemporaneità non tanto lontana dal “mondo” in cui egli viveva per le sfide che oggi stiamo attraversando, che pone in essere una profonda attenzione alla postura con cui ci poniamo di fronte alla crisi.


 La parola crisi, nel suo etimo, ci conduce al latino “crisis” e al greco “krisis” (da krino, ossia distinguere) che significano appunto scelta, decisione. L’etimologia ci riporta là dove siamo partiti nella riflessione della pensabilità: è un circolo vizioso? Direi proprio di no, anche se potrebbe esserlo quando nella difficoltà che in essa sperimentiamo non riusciamo a trovare la soluzione, la strada del cambiamento “creativo”, “sovversivo” e “necessario” per crescere emotivamente. Perché se la scelta ci mette in crisi e la crisi è un’opportunità di scegliere e decidere cosa cambiare per crescere, allora come ciò mi interroga? Cosa dice di me questo momento critico che mi sbarra, che mi fa soffrire, che mi interroga? Il rischio è cedere al circolo vizioso, perché se sto in crisi allora non riesco a scegliere, a decidere. Come un criceto che gira incessantemente la sua ruota in una corsa senza senso e direzione. A volte lo sbarramento si configura come un trauma, che ingabbia, blocca, annichilisce in un’eterna ripetizione che sembra non offrire scelte possibili. Perché decidere implica orientarsi in una direzione, richiede un “tagliare via”, un separarsi da ciò che ha condotto fin lì, come ci ricorda il suo etimo. Cosa la crisi e la scelta, che la determina e la segue ci chiedono, di “tagliare via”?


Quando lavoro con coppie in crisi relazionale definisco questo tempo doloroso e nello stesso tempo straordinariamente creativo della loro vita affettiva, come l’opportunità di fare il punto su ciò che non va e li ha condotti fin là, su ciò che pensano possano cambiare di loro stessi, prima di pretendere di cambiare l’altro. La crisi è una benedizione… mi dice cosa manca nella mia vita, nella relazione con l’altro, cosa mi orienta verso un cambiamento necessario e vitale per contrastare la dimensione mortifera e disanimante che ogni crisi porta con sé. Dove spesso le persone si fermano, bloccano vite in esistenze smarrite ed in drammatici circoli viziosi, come criceti nelle loro solitarie ruote, dove parola non c’è e senso si è smarrito…

Quando lavoro con gli adolescenti in crisi definisco questo tempo transitorio di “un non più e un non ancora”, come quello spazio “vuoto”, transizionale che offre la grande possibilità creativa di capire chi essere e diventare, dentro quel bozzolo che sembra isolare e soffocare… In quel vuoto di transizione dove cercare il proprio posto nel mondo, alzando lo sguardo verso un orizzonte che può offrire scorci di cielo…


Crisi come possibilità, opportunità di cambiamento, di creativa trasformazione. Sbarramento e discrimine… Ma il limite che la crisi ci impone di guardare, quello sbarramento che mi dice dove sono e chi sono, non è esente da disorientamento, da sofferenza e da timori di fallimento. Di poter perdere quella straordinaria occasione di fare della crisi una opportunità di crescita.


Psicoeducazione


“Pensare, infatti, significa dirigere.

E da come io penso dipende la mia direzione,

viene orientata la mia marcia della vita,

dalla quale, poi, deriva la mia destinazione”.

Vito Mancuso [1]

 

Come aiutare i nostri figli ad affrontare le piccole, grandi crisi che la vita pone loro dinanzi? Come trasformare la crisi in un’opportunità di crescita? Certamente questa è una questione centrale nell’educazione, soprattutto quando la sofferenza che i figli vivono nell’affrontare le loro difficoltà ci fa sentire impotenti e lacerati dal rammarico di non aver potuto evitare ai figli il dolore che ne deriva. Ma è questo che un genitore deve fare? Impedire la sofferenza, l’esperienza del fallimento, la lacerazione di una crisi che blocca la scelta?


Sappiamo bene che ciò è impossibile. E che, inevitabilmente, la vita, la nuda vita, porrà dinanzi limiti, sbarramenti, cadute… e che quei limiti, quelle cadute potranno offrire ai nostri figli, contemporaneamente all’esperienza dolorosa della sofferenza, l’opportunità di crescere emotivamente, di diventare ed essere. Perché solo attraversandola, solo facendosene qualcosa di quel limite, di quello sbarramento, di quella caduta che possiamo crescere.


Le questioni che si pongono sul piano educativo credo siano due: da una parte come il genitore vive e sperimenta il limite, la caduta nella propria vita e cosa mostra al figlio, quali priorità, quali valori incarna e dall’altra quanta fiducia/speranza si ha che il figlio possa farcela a superare le sue piccole, grandi crisi. Da una parte dunque come il genitore vive il fallimento e dall’altra come guarda e vive il fallimento del figlio. Le due questioni sono intrinsecamente legate e offrono, se vissute in modo trasformativo, l’opportunità di crescere nella pensabilità.


Viviamo una contemporaneità che mostra l’esperienza del fallimento e della caduta come esposizione tragica al ridicolo e alla vergogna, come umiliazione. Il mito della perfezione sembra dilagare in corpi osannati, scolpiti e rappresentati in immagini social impeccabili; in prestazioni al top, in storie di esperienze quotidiane e non, fantastiche e meravigliose… Un mito che non troviamo solo nel mondo social, ma anche in casa o a scuola, con bambini/e, principi/esse che non possono soffrire alcuna differenza, alcuna sofferenza, seppur minima frustrazione, e che non possono tollerare di non essere “issimo/a” in tutto e per tutto! Ma che accade quando quel 10 improvvisamente diventa 4, quando ti mettono in panchina, quando le cose proprio non vanno? Noi genitori diventiamo i paladini di una giustizia che elimina “tristezza” in nome di una “gioia” senza limiti e che dice ai figli che se non sono al top sempre, non sono mai abbastanza? Perché se il 4 non può essere accolto e accettato, se la panchina è un’esperienza tanto intollerabile, se le cose proprio non vanno… nella direzione di una perfezione più che perfetta, allora stiamo dicendo ai nostri figli che non crediamo nella loro possibilità di cambiare, di fare del limite, della caduta un’opportunità di trasformazione.


 In fondo quel 4 mi dice che devo trovare un modo per studiare che sia più funzionale, che non mi sono impegnato abbastanza, che per raggiungere un merito, ci vuole sacrificio, costanza, che quel 4 è una sfida prima di tutto con me stesso. E che se di contro quel 4 segnala un bisogno formativo specifico o una problematicità, allora, accogliendolo, posso trovare il supporto giusto, l’aiuto specialistico necessario per crescere. Che se mio padre e mia madre, oltre un semplice e scontato rimprovero (a me e non alla maestra che in fondo svolge solo il suo ruolo educativo!) mi danno coraggio perché credono in me, che ce la posso fare a rispondere al 4 e alla sfida che mi offre, allora quasi quasi ne vale la pena di trovare quel metodo di studio… che se proprio non riesco o capisco, con l’aiuto giusto posso trovare un metodo semplificato o un nome alla mia difficoltà, forse posso farmene qualcosa…


Che stare in panchina magari mi insegna il valore dell’umiltà, dell’attesa, della squadra, del dare il meglio di me, semmai dovessi varcare la soglia del campo, perché l’unione fa la forza. Perché mamma e papà sono lì a sostenermi comunque e a spronarmi a far il meglio di ciò che posso. E che se queste piccole, grandi sofferenze mi mandano in crisi, posso contare su qualcuno che sta lì con me, che mi dà coraggio, che non ingigantisce, ma dà un nome a ciò che accade dentro e fuori di me, che mi ascolta, che mi aiuta a credere in me, nelle mie possibilità, che mi offre speranza in uno sguardo possibile verso il cielo, pieno di stelle da sognare. Ma tutto questo implica andare contro corrente. Essere un po' salmoni… in una società dove il dio IO impera in ogni dove. Implica insegnare ai propri figli ad essere “uomini/donne delle soluzioni”, come ci direbbe oggi Einstein, che di fronte ai problemi e ai dati mancanti, possono avere la possibilità creativa di unire il mancante/non conosciuto con ciò che si conosce per trovare la soluzione e crescere emotivamente.  Implica insegnare ai figli a farsi “la crosta” per non essere un pane-mollica di fronte alla vita, alla nuda vita, affinché le sfide aprano alla crisi come occasione trasformativa, quale benedizione per cambiare e crescere.

 


[1] Vito Mancuso (2024) Non ti manchi mai la gioia, Garzanti (p. 74)


Etimologica-mente - a cura della dott.ssa Raffaella D'Eramo


 

 

Crisi, latino crisi(m) dal greco krísis “separazione, scelta, giudizio”, derivato da krínein “separare, decidere, giudicare”. L’origine del termine fa riferimento al mondo agricolo, in particolare alla cura con cui gli agricoltori separavano il grano dalle piante infestanti, un separare che ha insita la capacità di giudicare la parte buona da quella cattiva. Nel tempo ha assunto diversi significati e sfumature in vari ambiti: conosciamo la crisi economica, quella politica, energetica, la crisi personale o esistenziale; in medicina è il cambiamento improvviso nel decorso di una malattia. Siamo soliti indicare con essa una situazione particolare della vita che può dare esiti sia positivi che negativi; la rottura di un equilibrio precedente che spesso destabilizza, generando un turbamento. Ma l’etimologia ci dice che crisi è un momento di “separazione”, una separazione tra ciò che era e ciò che è. Come tutte le separazioni, la crisi produce dunque un cambiamento che ci mette nelle condizioni di fare una scelta, che non necessariamente produce effetti negativi, perché, se affrontata con i mezzi adeguati, la crisi può tradursi nel miglioramento delle proprie condizioni, in una crescita personale e nella consapevolezza di avere un’opportunità di aprirsi a nuove realtà.

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