Le parole servono: SCELTA - A cura della dott.ssa Lucia Colalancia
- Parole in famiglia

- 3 gen 2024
- Tempo di lettura: 9 min
“Essere o non essere, questo è il dilemma”
W. Shakespeare (Amleto, Atto 3, scena 1)

Quando ci poniamo di fronte alla nostra verità soggettiva, la parola scelta diviene sbarramento e, nello stesso tempo, discrimine di ciò che vorremmo essere e diventare. Come uomo, come donna, come essere umano in cerca del proprio destino. Perché sbarramento e discrimine? In fondo il viaggio nella pensabilità e nelle parole che servono ci ha condotto fin qui, attraverso passaggi, strettoie, andirivieni di riflessioni e pensieri che ci costituiscono e danno forma alla nostra identità, al nostro essere più profondo e “vero”.
“Essere o non essere, questo è il dilemma…” quel dubbio amletico che ognuno, nella sua vita, prima o poi incontra e diviene sbarramento e discrimine, poiché una direzione esclude l’altra in quella “o” di congiunzione che ha valore disgiuntivo, ponendoci dinanzi una alternativa che esclude l’atra. Ogni scelta, soprattutto quelle che ci riguardano intimamente nella nostra soggettività valoriale più intima, in fondo ci mette davanti ad un salto nel vuoto, a qualcosa da “tenere” e a qualcosa da “lasciare”, sapendo che c’è un rischio, ineliminabile, di fallire, di mancare, poiché niente è certo a priori. La scelta di essere o di non essere, ci riconduce al nostro sbarramento iniziale e costitutivo dell’umano, al non poter essere o avere tutto, in quanto siamo creature mancanti e, per questo, bisognose di crescere e maturare emotivamente, interiormente nel tempo. Perché noi siamo tempo, relazione, esseri in continuo mutamento, che attraverso le “scelte” della vita, vanno incontro al proprio destino.
Qualcosa da tenere e qualcosa da lasciare, dunque, che implica un’assunzione di responsabilità e una ridefinizione di chi siamo e vogliamo essere.
Dal participio passato sostantivato del verbo “scegliere” (dal latino ex- eligere, ossia da, con valore di separazione, e selezionare) la parola scelta ci richiama al dare valore, eleggere, selezionare ciò che ci sembra meglio per noi. Soren Kierkegaard ha posto al centro del suo pensiero filosofico proprio la scelta, quell’aut-aut che costituisce un inevitabile della vita umana, ossia un continuo dibattersi tra termini opposti delle infine scelte che la attraversano: l’uomo, dunque, diventa ciò che è, secondo Kierkegaard, come diretta conseguenza di ciò che sceglie, in quanto direttamente responsabile delle libere azioni che compie. In fondo anche la scelta di non scegliere, di rinviare, di delegare a terzi la propria responsabilità è una scelta! Nel rinviare, nel delegare, in fondo si perde l’occasione di trovare se stessi, di farsi artefici del proprio destino, nel bene e nel male, nella riuscita di una vita o nel suo fallimento.
Nell’indecisione perenne non si ha un orientamento, ci si sente smarriti, vuoti. Penso alla lettura che ci propone Dante degli eterni indecisi, definendoli “ignavi o negligenti”, coloro che nella vita non presero una decisione e non seguirono i propri ideali. Eternamente in movimento, inseguendo una insegna senza significato come conseguenza della legge del contrappasso per aver avuto una vita immobile e non attiva, priva di scopo e significato, posti in un luogo, l’Antinferno, che rappresenta proprio un luogo di transito che non appartiene né all’Inferno, né al Paradiso. Metafora di quell’eterno dilemma e di quella dimensione che potremmo descrivere con la preposizione “tra” che indica proprio una posizione intermedia tra due elementi, in questo caso tra gli aspetti opposti dell’esistenza. “Essere e diventare” o “non essere e non diventare”, nell’indecisione si pone dunque l’accento in quel “tra”, in cui, abnegando alla propria dimensione esistenziale, si resta proprio nell’incompiutezza, nell’indefinitezza di chi sceglie, inevitabilmente, di non scegliere…
Freud definisce Amleto un Edipo moderno, un Edipo mancato che, nel suo non passaggio all’atto, frutto di una scelta consapevole, resta prigioniero dell’incompiutezza, nel profondo senso di colpa di essere e divenire se stesso. Lacan, a tale lettura, aggiunge un elemento discriminante: in Amleto, come in ogni vita bloccata da indecisione e incompiutezza, non coesistono “sapere” (di sé, dell’altro, della vita) e “azione”, in quel fare che testimonia la risposta soggettiva di attraversare la vita, assumendosi la responsabilità di poter “fallire” così come di “farcela”. Il non governo, il non controllo che la scelta inevitabilmente introduce, paralizza l’azione che si congela in una dimensione di mezzo, in quel “tra” che è metafora di un antinferno soggettivo. Di qui ne consegue che si può scegliere solo nella consapevolezza di sapere chi si è e cosa si desidera e, nella libertà (vedi riflessione) si può cercare la propria verità (vedi riflessione) più profonda e, dunque, assumersi la responsabilità (vedi riflessione) di ciò che si sceglie. Ciò implica la capacità di stare, di saper portare su di sé il rischio del fallimento/riuscita, essere cioè capaci di attraversare la crisi che il non sapere e il non governo della scelta compiuta, inevitabilmente, comporta. Sbarramento e discrimine.
La possibilità di scelta che la vita continuamente ci pone, in questo senso, diviene dunque atto esistenziale, strutturale e centrale nello sviluppo/crescita emotiva della persona in ogni ambito della vita, soprattutto quello più profondo, soggettivo e vero.
“Essere o non essere, questo è il dilemma,
se sia più nobile nella mente soffrire
i colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna
o prender armi contro un mare d’affanni
e, opponendosi, por loro fine?
… Morire, dormire forse sognare; è qui l’ostacolo.
Perché in quel sonno di morte, quali sogni possano venire,
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci riflettere. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga”.
W. Shakespeare Amleto – Atto 3, scena 1
Psicoeducazione. Il tempo in famiglia: educare alla scelta
A cura di: Lucia Colalancia
“Ogni giorno, quello che scegli, quello che pensi
e quello che fai, è ciò che diventi”
Eraclito
Se scegliere nella vita rappresenta un atto esistenziale, strutturale e centrale nello sviluppo/crescita emotiva della persona in ogni ambito della vita, soprattutto quello più profondo e vero, educare alla scelta implica progettualità educativa. Implica cioè introdurre nella relazione con i figli la dimensione prospettica che questa capacità richiede per divenire atto esistenziale: prendersi tempo, fare esperienza della possibilità di errore, della caduta e del recupero all’interno di una relazione tra un genitore disposto “a stare”, nel tempo della crescita, in tale dimensione prospettica ed un figlio/a che cresce, accolto nella sua particolarità.
Una progettualità che inizia fin dalla tenera età quando è il genitore a scegliere per il figlio, poiché impossibilitato a farlo, mettendo al centro i suoi bisogni, nel rispetto e nel riconoscimento della sua particolarità. Se fare delle scelte per il figlio è il primo atto della progettualità educativa, il secondo atto è quello di educare il figlio a fare le proprie scelte. Nel primo atto, il genitore sceglie in funzione della consapevolezza che ha di sé, del figlio, delle necessità e dei bisogni del piccolo nel tempo della crescita, assumendosi la responsabilità giuridica, etica e valoriale della scelta. Un rispondere per il figlio, per il suo bene, condizionato inevitabilmente dall’idea del mondo che il genitore incarna, dai valori che abita, dalle rappresentazioni che il genitore ha del figlio. Una complessità che richiede la capacità di riconoscerlo, nella sua particolarità, come essere altro da sé, in una separatezza che introduce la “soggettività” del figlio fin dal concepimento, non come “oggetto” posseduto, goduto, plasmato dal genitore, ma come “soggetto” con bisogni specifici, con una particolarità da conoscere e far emergere, da far crescere nel tempo, in una relazione d’amore che educa e nutre, che apre al talento e al destino, che accoglie la separatezza come costitutiva e strutturale.
Nel secondo atto, che inizia contemporaneamente al primo, è fondamentale non solo riconoscere il figlio come altro da sé, ma che il genitore abbia la visione prospettica di una capacità che va lavorata affinché si espliciti e diventi, nel tempo della crescita, possibilità vera e propria. Perché si può scegliere nella misura in cui ci si conosce, si sappia cosa si desidera, ci si sente liberi di cercare la propria verità soggettiva e si sia capaci di portare su di sé la responsabilità che la scelta comporta. Una capacità, complessa e articolata, che per arrivare a maturazione richiede di essere educata nel tempo.
Come?
Educare alla scelta richiede “testimonianza”: nel tempo della crescita fare esperienza di come il genitore vive la quotidianità delle scelte, di come risponde alla complessità della vita rappresenta la base esperienziale e valoriale su cui si edificherà la capacità di scegliere. Perché noi impariamo da ciò che viviamo e sperimentiamo nel tempo della crescita nella relazione con le persone significative della nostra esistenza.
Educare alle scelte richiede “tolleranza”: saper attendere, comprendere e sostenere le difficoltà dei figli, nel tempo della crescita, nelle difficoltà quotidiane che il vivere introduce, perché la scelta è dietro l’angolo ad ogni età. Tollerare le indecisioni, sostenere le fragilità, indicare le potenzialità, dare un nome alle emozioni che il bambino prova nello sperimentare la vita. Tollerare le frustrazioni, le turbolenze emotive e mostrare al figlio “come” viverle e attraversarle. Perché noi impariamo a regolare le nostre emozioni, a conoscerle e gestirle dalla relazione primaria con i genitori e con gli adulti significativi della nostra vita. Non è dato a priori, ma appreso nelle relazioni che viviamo e dalla esperienza che facciamo.
Educare alle scelte richiede “coerenza”: nel dire e nel fare, nel dare seguito alle parole dette, nel far sì che la responsabilità diventi esperienza concreta per i figli, nelle piccole, come nelle grandi cose. Perché noi impariamo dal come i genitori e gli adulti significativi si comportano, da ciò che dicono e, se questo sia coerente e non generi confusione nel figlio.
Educare alle scelte richiede “costanza”: esserci nella relazione educativa significa dare continuità, garantire una presenza affettiva che “resti”, che non abbandoni la nave nel mare in tempesta, che non lasci i marinai a fronteggiare le avversità del viaggio. Perché ogni esperienza è occasione di crescita e opportunità di pensabilità e, dunque, di dare senso e significato, per crescere emotivamente.
Educare alle scelte richiede “gradualità”: nel tempo lungo della crescita è fondamentale che il genitore aiuti il figlio a vedersi “in fieri”, come un essere che prende forma, fisicamente, psicologicamente ed emotivamente nel tempo. Viviamo in una società del “tutto e subito”, dominata dal consumo e da logiche che spesso contrastano i valori di cui stiamo parlando. Gradualità significa non accelerare troppo il passo, sostenere i figli nelle piccole e nelle grandi sfide della vita, senza sostituirsi a loro o spinandogli la strada, ma “stando con loro” affinché sperimentino e vivano fino in fondo, ogni esperienza, anche quelle che possono sembrare dolorose. Con mamma e papà accanto, si può.
Testimonianza. tolleranza, coerenza, costanza, gradualità sono elementi costitutivi dell’educare alle scelte, fin da piccoli. Naturalmente vanno calibrati a seconda dell’età del bambino e delle sue potenzialità. Quando il bambino è piccolo bisogna offrire occasioni di scelta, governate dal genitore. Dire ad esempio “Cosa vuoi mangiare?” oppure “Quale pasta vuoi?” ad un bambino di 3 anni lo disorienta perché lo pone di fronte ad una vastità di opzioni insormontabili e non congrue a questa età. Dovrebbe essere il genitore a sapere cosa far mangiare al bambino piccolo (primo atto), ma può educarlo a scegliere offrendogli due opzioni, cioè limitando la scelta a ciò che il bambino può fare a quell’età (visione prospettica- secondo atto). Quindi per restare nell’esempio appena fatto, si potrebbe dire al bambino piccolo: “Preferisci le penne o le farfalle?”, offrendogli così l’opportunità di scelta, in una alternativa governata dal genitore che, nel tempo della crescita, sarà allargata a più opzioni, aumentando in flessibilità, riducendo sempre più il controllo, offrendo al figlio occasioni di sperimentare le sue scelte e le responsabilità che ne derivano.
Allo stesso modo, quando si pongono regole di comportamento, il bambino va aiutato a comprenderle, a capire la responsabilità che comportano, sostenendolo nelle conseguenze che derivano (soprattutto se non le rispetta). Anche se questo implica una piccola quota di frustrazione. Far sperimentare al bambino che può attraversare quella piccola frustrazione e che, nonostante il dolore che comporta, egli “sopravvive”, che i genitori sono lì per sostenerlo fiduciosi nelle sue potenzialità, lo aiuterà a credere in se stesso, a trovare in sé le risorse per affrontare le difficoltà, non sentendosi solo. Mattoncino dopo mattoncino, nel tempo della crescita imparerà a conoscersi, riconosciuto nelle sue particolarità, e a orientare le sue scelte nella libertà e nella verità della propria soggettività in fieri.
Etimologica-mente: Scelta
A cura di: Dott.ssa Raffaella D’Eramo
Scelta: participio passato del verbo “scegliere” che significa “indicare, prendere tra più persone, cose, soluzioni, e simili, quella che, secondo un determinato criterio, sembra la migliore”, deriva dal latino *exeligere, composto di ex- da (con senso di separazione) ed eligere “scegliere”.
La scelta è l’espressione di una preferenza che comporta l’esclusione di altro e, se fatta con consapevolezza, non necessariamente implica rinuncia e rimpianto. In greco scelta è “hairesis” (αἵρεσις) “eresia”, parola giunta fino a noi con connotazione negativa, col significato di opinione erronea, assurda (soprattutto nell’ambito della dottrina religiosa); è, infatti, una di quelle parole che nel corso del tempo e per diverse ragioni hanno assunto un significato differente da quello originario.
“Eresia” è la scelta fatta contro la tradizione, contro il conformismo, la scelta di chi è mosso alla continua ricerca della verità e di chi va sempre oltre la superficie, perché desideroso di comprendere il mondo nei suoi aspetti più profondi.
Essere eretici richiede dunque coraggio perché scegliere, seguendo la propria libertà interiore, suscita critiche e disapprovazione negli altri, ma allo stesso tempo offre la possibilità di vivere una vita autentica e coerente, proprio perché le scelte sono in linea con i propri principi. Essere eretici è anche un atto di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri: quando l’eretico si batte contro l’ingiustizia, l’immobilismo e per la verità, non lo fa solo per sé, ma anche per il bene della comunità. Il suo impegno è al servizio del bene comune, anche se questo vuol dire andare contro il pensiero dominante: affrontare le sfide non spaventa se questo serve a dare un significato alla propria vita.






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