Amori rubati- A cura della dott.ssa Lucia Colalancia
- Parole in famiglia

- 15 dic 2022
- Tempo di lettura: 9 min
Sala della Bifora di Palazzo Tabassi- Sulmona 26 Novembre 2022

Non posso vivere senza di te. Dipendenza affettiva e violenza nelle relazioni di coppia
Dott.ssa Lucia Colalancia
“Non posso vivere senza di te” è una delle espressioni più tipiche dell’amore, dell’incontro d’amore che muta radicalmente la vita degli amanti. Da quell’incontro che genera innamoramento (der. di amore, che a sua volta deriva dal verbo “amare” dalla radice sanscrita Ka, ossia “camare”, desiderare, amare), tutto muta, tutto acquista senso, un nuovo senso della vita che crea uno spartiacque tra prima di te e dopo di te, tra la vita prima dell’incontro e la vita dopo l’incontro.
Dal “Voglio stare sempre con te” al “Penso sempre a te” (come raccontato nella bellissima canzone di Battisti “E penso a te”), dal “Non lasciarmi mai”, al “Sei tutto per me” nel linguaggio degli innamorati, l’incontro d’amore genera la possibilità di una promessa e dunque la ricerca del per sempre, del destino: Io e Te siamo destinati a stare insieme, a fare del nostro incontro una promessa e un progetto, un unicum, un destino.
Massimo Recalcati nel suo lessico amoroso (in Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, 2019, Feltrinelli) distingue l’amore che brucia e si consuma, dall’amore che arde e si autoalimenta, dall’innamoramento fuoco fatuo all’amore fuoco che arde per sempre. È ciò che Francesco Alberoni descriveva nel suo libro “Innamoramento e amore” (2002, Garzanti), è ciò che ognuno può sperimentare nella propria vita.
Ogni storia relazionale di coppia parte sempre da un incontro d’amore, anche quando poi quell’amore viene rubato, strappato via, accartocciato come la locandina di questo evento, mortificato, annientato dalla violenza. Ma cosa accade in una relazione di coppia in cui la violenza trasforma il relazionale della promessa e del per sempre dell’amore in un nuovo lessico che dell’amore non conosce linguaggio? Che fine fa quell’amore, quell’incontro, quella promessa?
Se l’incontro d’amore porta con sé la speranza della promessa, del progetto, dell’unicum del destino, sia che si traduca in un fuoco fatuo o in un fuoco che arde per sempre, come si declina questa speranza in una relazione violenta?
Cercherò di offrire delle riflessioni per provare a comprendere cosa rende così complessa la dinamica relazionale della violenza e cosa rende così difficile la protezione e l’uscita da relazioni violente.
Alcuni concetti chiave sono necessari per avere un quadro più ampio di ciò che stiamo osservando.
La violenza è un fenomeno presente nell’umano: è trasversale, transculturale, pervasivo, non è legato al genere (anche se è più frequente nei maschi), all’etnia o all’età; ha radici culturali, educative e transgenerazionali. La violenza è strutturalmente legata alle dinamiche di potere che si generano nelle relazioni umane, in particolare nell’ambito dell’esperienza del DOMINIO-SOTTOMISSIONE, PROTEZIONE-MINACCIA, ATTACCO-FUGA. La violenza nella coppia è una forma specifica di violenza che si manifesta in una relazione affettiva, alterandone la funzione e la specificità, dove la dinamica di potere si esprime attraverso la sopraffazione fisica, mentale ed economica di un partner sull’altro.
L’essere umano è un essere relazionale, nasce, cresce e vive in relazioni che definiscono il proprio modo di stare al mondo. È un essere per la parola (Parlessere di Lacan), ossia un essere che vive immerso nel linguaggio fin dal concepimento e che sperimenta la relazione con l’altro significativo, attraverso il linguaggio e la parola. Infatti “linguaggio e relazione” coincidono, nel senso che, come ci hanno spiegato gli studiosi della scuola di Palo Alto, le leggi che governano il nostro dire, hanno implicazioni di relazione e non solo di contenuto. Quando parliamo, diciamo sempre qualcosa che attiene alla relazione in cui avviene quella comunicazione.
L’essere umano è un essere che apprende il modo di stare in relazione, in primis dalle relazioni significative, dai genitori, da chi accompagna il cucciolo d’uomo nel tempo della crescita. Infatti veniamo al mondo predisposti a stabilire dei legami: il legame di attaccamento tra il bambino e chi se ne prende cura, racconta il come relazionale, ossia quale modello comportamentale relazionale il bambino ha appreso nella relazione con l’altro. Una relazione che si struttura da una dinamica di totale asservimento del neonato all’adulto, di totale asimmetria, di totale dipendenza emotiva, fisica e di cura (dipendenza necessaria alla sopravvivenza). Attraverso questo come e il passaggio dalla dipendenza totale all’autonomia crescente, il bambino apprende procedure ossia modi di essere con, le informazioni su di sé, sul mondo esterno, sul modo di rapportarsi con gli altri. Ogni relazione (genitoriale, amicale, amorosa, terapeutica, educativa, professionale) mette sempre in gioco tali dinamiche: vicinanza/distanza- dipendenza/indipendenza- separazione/individuazione… che necessitano continuamente di essere rimodulate in funzione dell’età, del tipo di relazione…
L’essere umano dunque impara dai propri genitori le regole implicite interiorizzate che definiscono le modalità di autoregolazione emotiva e di regolazione interattiva. L’interiorizzazione di tali regole implicite è alla base della capacità di mentalizzare e di sintonizzazione emotiva con l’altro da sé, ossia la capacità di comprendere il comportamento interpersonale in termini di stato mentale (vissuto emotivo reciproco che consente di adeguare il proprio comportamento in base al comportamento altrui e alla situazione). La capacità di mentalizzare deriva dunque dalla relazione di accudimento primaria che offre gli “strumenti” relazionali a fondamento del modo di stare in relazione.
La violenza si iscrive sempre in “infanzie infelici” sia della futura vittima che del futuro aggressore, come direbbe Luigi Cancrini (La cura delle infanzie infelici. Viaggio nell’origine dell’oceano borderline, 2012, Raffaello Cortina Editore), cioè in relazioni di accudimento che non hanno permesso lo sviluppo della capacità di mentalizzare e di sintonizzazione emotiva.
Quali sono gli esiti delle “infanzie infelici”? Cosa i partner sperimentano di quegli esiti nel rapporto di coppia? Se gli esiti possono essere molteplici, poiché ogni essere umano è unico ed ogni storia è particolare proprio per quell’unicum, possiamo però estrapolare alcuni aspetti maggiormente presenti in chi ha avuto una infanzia infelice e che ritroviamo nella dinamica di coppia, soprattutto in quella violenta.
In primo luogo possiamo trovare un senso generale di insicurezza, di incertezza in ambito relazionale; timore di essere abbandonati; sensazione pervasiva di essere sbagliati o di essere la causa dei problemi dell’altro; vissuto di colpa radicato e fonte di malessere; sguardo centrato sull’altro, i cui bisogni sono prioritari rispetto ai propri; tendenza a giustificare i propri comportamenti o quelli dell’altro; confusione emotiva derivante dall’insicurezza e dal dubbio dominante, controllo ossessivo, gelosia patologica, ansia, depressione, intolleranza alla frustrazione…
Questi vissuti possono essere sperimentati in modo diverso a seconda del genere sessuale e determinano, naturalmente, risposte diverse. Ad es. l’insicurezza nelle relazioni affettive nella donna potrebbe generare una tendenza alla fusionalità, a vivere relazioni di dipendenza dall’altro, a richiedere la presenza costante dell’altro… Nell’uomo l’insicurezza relazionale potrebbe determinare il bisogno “ossessivo” di controllare l’altro, la paura di perdere la padronanza, di essere tradito, abbandonato, fino a cercare di recuperare tale padronanza sottomettendo la donna, attraverso la prevaricazione fisica, psicologica, bloccando ogni movimento di autonomia…
Quanto detto ci permette di dire che la relazione di coppia diviene il campo intersoggettivo in cui si mettono in scena le proprie e le altrui regole interiorizzate del modo di stare con e che in essa si esplicitano i percorsi di crescita, nelle relazioni violente purtroppo deficitario, dei partners. Non solo. La relazione di coppia diviene il luogo soggettivo in cui si sperimenta “di nuovo” quanto non è stato risolto nella relazione con i propri genitori durante l’infanzia, nel tentativo di ripararlo, nel tentativo cioè di riscrivere la propria storia.
Nell’ambito della violenza però quanto detto assume una specificità: la distorsione relazionale si autoalimenta nelle dinamiche della violenza stessa, amplificando i vissuti di inadeguatezza e di insicurezza nella vittima e amplificando i meccanismi di controllo e di punizione nell’aggressore.
Nel campo relazionale di coppia come si mettono in gioco tali dinamiche? Finché la coppia vive in simbiosi (luna di miele relazionale), chiusa nel cerchio minimo della relazione stessa (allontanamento dagli amici, io e te, tu e io…) tutto sembra essere meraviglioso. Come la vita introduce l’esperienza della necessaria distanza (nascita di un figlio, nuovo lavoro per la donna, amicizie…), tutto muta irreversibilmente.
Il passaggio da una relazione passionale ad una relazione incentrata sulla violenza avviene in modo subdolo, quasi vischioso perché non ci sono gli elementi per poter comprendere fino in fondo quanto sta accadendo. Si arriva sempre troppo tardi, non ci si protegge, perché quell’amore che è tutto diviene, nello stesso tempo, fonte di amore e di odio, di protezione e di rifiuto/rabbia distruttiva.
I meccanismi di dominanza/sottomissione generati dalle dinamiche di potere e di controllo, agite attraverso la superiorità fisica dell’uomo e la sottomissione/impotenza della donna alimenta un circuito della violenza incentrato sulla dipendenza affettiva.
La violenza nella coppia rappresenta dunque il tentativo di dominare o controllare il partner psicologicamente, sessualmente o fisicamente che determina conseguenze negative nei singoli individui e nella relazione stessa.
Di recente si è rivolta a me una giovane donna che da alcuni mesi aveva intrapreso una relazione. Dopo un primo periodo di “luna di miele” soddisfacente e passionale, il fidanzato ha iniziato a diventare sospettoso, particolarmente geloso e controllante, tanto da innescare litigi particolarmente accesi. La richiesta della giovane donna era proprio sul perché lei non riuscisse a lasciare il fidanzato, nonostante tali disagi relazionali, soprattutto dopo che tutti le dicevano che qualcosa non andava. Perché lei non lo aveva capito? Perché aveva permesso che la relazione procedesse nonostante quei comportamenti non la facessero sentire amata?
Quando si vive una relazione che da passionale diviene violenta, il primo elemento che riscontriamo nella vittima è la confusione emotiva: la capacità di valutazione dei rischi è alterata dalla speranza di cambiamento, motivata dai bei momenti condivisi, dal fatto che quello stesso uomo così amorevole, sia diventato improvvisamente “un altro”. Ci si può ritrovare quindi in situazioni paradossali in cui si vorrebbe agire, proteggersi, ma non si riesce. Come questa giovane donna.
Nelle relazioni incentrate su dinamiche di dipendenza affettiva abbiamo una donna confusa, che presume di poter cambiare il partner, che si possa riparare quello che non va e tenersi solo il “lato buono” dell’altro. Una donna che giustifica i propri comportamenti per dimostrare al partner che quello che pensa di lei non è vero, fino al punto di annullare ogni comportamento in autonomia; dall’altra abbiamo un uomo continuamente sospettoso, geloso, che pensa di poter cambiare la propria partner perché quello che fa non va mai bene, che la accusa di aver causato, con i suoi comportamenti sbagliati, la sua rabbia, altrimenti mai l’avrebbe trattata così. Ci si ritrova in poco tempo a confondere l’amore con la dipendenza reciproca, che rende quel “non posso vivere senza di te” da amore romantico a cappio intorno al collo.
È il circuito della violenza che fa della dipendenza affettiva nello stesso tempo il motore della relazione e la benzina che la alimenta. Sono i meccanismi che animano la relazione violenta a determinare un condizionamento che rende difficile la separazione. Nel tempo, questi comportamenti inducono una condizione di paura pervasiva che toglie la lucidità nelle scelte e nella valutazione e induce le donne a compiacere il compagno violento. A tutto ciò si aggiungono un senso di profonda vergogna e l'insicurezza, le quali alimentano la difficoltà a prendere una posizione, a decidere di interrompere la relazione. Il delicato stato psicologico in cui le donne si ritrovano può contribuire alla manifestazione di: passività, accettazione della dominanza del partner, difficoltà di riconoscimento dei propri diritti, sottovalutazione del pericolo, perdita di autostima e presenza di sintomatologia varia (ansia, disturbi del sonno, vissuto di impotenza, difficoltà a gestire i propri figli, ideazione suicidaria o autolesionista e dubbi costanti sulla propria salute mentale).
Un’altra donna, sempre in fase di consulenza, dopo aver raccontato i comportamenti violenti del partner durante le discussioni incentrate sul tentativo di separarsi di lei, mi chiede “Ma sono io pazza? Sono io che l’ho fatto diventare così?”, in preda al senso di colpa indotto a seguito del movimento separativo e individuativo. Spesso la valutazione soggettiva del proprio valere nella donna può coincidere con l’idea irrealistica di poter cambiare il partner e dal bisogno di sentire che egli necessita del suo aiuto (spesso definito sindrome della crocerossina). Tutto ciò può concorrere a spiegare perché la separazione da un uomo violento può essere particolarmente difficile. Generalmente la separazione avviene attraverso un processo "elastico" (separazioni e ricongiungimenti continui) che induce la donna ad allontanarsi e ritornare sui suoi passi. Questo comportamento ambivalente la espone ai giudizi degli altri che non comprendono il perché dei suoi ripensamenti e che possono non riconoscere le difficoltà emotive presenti, fino al punto di non attivare meccanismi protettivi.
La dipendenza affettiva spesso è accompagnata da una percezione della realtà distorta oltre che dall’intolleranza alla solitudine e da un vuoto interiore, isolamento e perdita di punti di riferimento.
Quel “Non posso vivere senza di te” da cui siamo partiti, si traduce, nelle relazioni violente, nella vittima in una insicurezza pervasiva e un impasse che blocca il processo separativo e dunque la crescita psicologica, fino alla totale mortificazione, all’annullamento del sé, al divenire “oggetto nelle mani dell’altro”. Nel carnefice di contro si traduce in ossessione perversa, nel controllo paranoico, nella squalifica continua e nell’accerchiamento/isolamento per manipolare e bloccare ogni movimento separativo della vittima.
Quando la violenza, oltre che psicologica diviene fisica, la vittima sperimenta sia la frattura “oggettiva” del corpo che “soggettiva”, ossia una lacerazione emotiva che rompe ogni possibilità di sentirsi al sicuro. La paura di morire e l’angoscia che ne deriva paralizzano e rendono ancora più succube la donna, intrappolandola. Il carnefice di contro, attraverso lo sfogo sul corpo della donna, recupera la dimensione di padronanza e di potere che gli consente di superare l’impotenza che avverte quando la donna cerca di scappare/uscire da quella dinamica mortifera. Fino al femminicidio, fino al suicidio, estremo tentativo di escludere la responsabilità e i vissuti depressivi che ne deriverebbero. Quando la violenza domina la relazione di coppia viene meno la parola, l’unicità di quell’incontro, la “cura” dell’amore. Tutto si annulla.
Credo che quando accade ciò siamo ormai in una oltre relazionale che richiede solo protezione e tutela. In tal senso, credo si possa parlare di prevenzione nella misura in cui si metta al centro la “relazione genitori/figli”, attraverso reali politiche di tutela dei piccoli e attraverso un’educazione che valorizzi il rispetto, le particolarità dei singoli, attraverso l’ascolto, la fiducia, la responsabilità, perché ad amare si impara.
In Donne che amano troppo (Robin Norwood, Feltrinelli, 2013) possiamo leggere che “… l’amore non ha nulla a che fare con il controllo, la gelosia, il possesso; l’amore non ha nulla a che fare con l’ansia, la paura, il senso di colpa, l’umiliazione. L’amore non ammala, non annienta, non annichilisce. Non esistono schiaffi dati a fin di bene o comportamenti di controllo finalizzati alla protezione. Niente giustifica questi atteggiamenti, nulla giustifica un gesto violento, perché l’amore non è mai violento, l’amore è nutrimento reciproco, è libertà e rispetto dell’altro, non è giustificazione o attesa. L’amore è certezza, non illusione, l’amore è sentirsi al sicuro, è crescere come individuo e come coppia, all’interno di una relazione fatta di solidarietà, rispetto, fiducia e ascolto”.
Ad amare si impara.






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